Proponiamo, per discuterne insieme, l'intervista di Eleonora Fortunato (Orizzonte Scuola.it) a Andrea Gavosto (Direttore della Fondazione Agnelli)
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Tecnostrutture, sperimentazioni, cantieri, e al centro c’è
sempre lei, la valutazione, con lo scopo di provare a capire quale
è la strada maestra per migliorare il nostro sistema di istruzione
valorizzando l’impegno e la preparazione dei docenti.
Ma ‘valorizzare’ non significa necessariamente ‘premiare’: meglio
investire le risorse a disposizione per affidare a docenti
selezionati, magari attraverso un concorso di abilitazione
nazionale, i nuovi ruoli indispensabili al governo delle scuole
(la cosiddetta “carriera”): insegnanti capaci di progettare e
organizzare l’aggiornamento, la ricerca didattica, la formazione
dei nuovi docenti, l’integrazione dei disabili e degli stranieri,
l’orientamento.
Presidente, si sta costruendo una cultura della valutazione
tra i docenti italiani? Che reazioni ci sono state dopo l’ultimo
rapporto della Fondazione Agnelli, c’è un punto su cui si comincia
a essere tutti d’accordo?
“Per quanto riguarda la cultura della valutazione, penso che le
resistenze dei docenti siano ancora molto forti perché valutazione per
molti è semplicemente sinonimo di strumento per ridurre le risorse
alla scuola o ai singoli individui. Bisognerebbe, perciò,
iniziare a ragionare in maniera più laica. Le reazioni al nostro
rapporto sono state tutte sorprendentemente positive e il punto di
incontro fondamentale è stato rappresentato dall’idea che non può
essere un organo esterno, con un approccio tecnocratico, a
imporre un sistema di valutazione dall’alto e a determinare quale
sia stato il contributo effettivo di un insegnante alla formazione
di uno studente. Questo sia per motivi statistici, sia per
ragioni intrinseche alla professione: l’insegnamento è un lavoro di
squadra, pertanto il successo formativo di un ragazzo deve
necessariamente essere messo in relazione col successo di un team.
Direi che la valutazione è un processo che deve costruirsi dal
basso, con la partecipazione di tutti coloro che vi partecipano”.
L’Invalsi, perciò, deve farsene una ragione…
L’Invalsi è uno strumento utilissimo se si occupa della valutazione
del sistema nella sua complessità e se diventa sempre più autonomo
e indipendente dal Miur. Ma per fare questo ha bisogno di
rafforzare la sua presenza sul territorio, per capire come evolve
il sistema. L’istituto dovrebbe, inoltre, iniziare a valutare gli
effetti dei singoli provvedimenti messi in atto dal ministero, per
esempio: come sta andando il ritorno al maestro unico? I
dimensionamenti hanno funzionato o no? Certo è una visione di
prospettiva: fino a quando l’Invalsi non sarà veramente autonomo
dal Miur, rispondendo solo al Parlamento, non ci si potrà
aspettare un reale controllo e verifica sul suo operato”.
Per molti valutare gli insegnanti significa premiare i
meritevoli e punire i meno capaci. Lei pensa che i meccanismi
premiali, anche su base reputazionale, servano davvero a dare
stimoli positivi al sistema di istruzione nel suo complesso?
“Gli approcci basati sulla reputazione non mi sembrano pienamente
convincenti, e anche noi della Fondazione Agnelli contestiamo il
legame tra merito dei docenti e attribuzione di eventuali premi in
denaro. Avrebbe molto più senso, invece, valorizzare attitudini e
competenze specifiche dei docenti nell’ambito di una carriera”.
Ma come accertare queste attitudini e queste competenze?
“L’ipotesi che ci sembra possa riscuotere il maggior numero di
assensi è quella del concorso: una procedura selettiva nazionale
che, magari a partire da candidature sostenute dai dirigenti,
accertasse la preparazione di alcuni insegnanti a rivestire
funzioni diverse dalla sola docenza”.
Vengono i brividi a sentir parlare di abilitazione nazionale dopo quello che è successo nel mondo universitario…
“Nel mondo universitario c’è stata, come al solito, una
interpretazione restrittiva del concetto di abilitazione:
abilitare un docente non significa dargli il posto, ma riconoscere
che ha i titoli e le qualità necessarie a ricoprire certi
incarichi, un po’ come succede nell’abilitazione alle
professioni”.
Ha parlato di candidati sostenuti dai dirigenti. Secondo lei i
dirigenti scolastici italiani sono pronti a gestire efficacemente
le risorse umane? In fondo, se lo fossero davvero si potrebbe
anche scavalcare il concorso affidando direttamente a loro
l’incarico di ‘promuovere’ i docenti…
“E già, questa è una domanda che non si può eludere. Ci sono
resistenze molto forti, soprattutto da Roma in giù, a concentrare
nelle mani dei dirigenti scolastici la gestione complessiva delle
risorse umane: sono forti i timori di nepotismi, favoritismi etc.
Ed è vero che i nostri dirigenti sono senz’altro meno preparati
dei loro colleghi anglosassoni o nord europei a guidare una scuola
dalla A alla Z. Pensiamo che il passaggio concorsuale possa
essere un valido alleato: a quel punto i presidi potrebbero
attingere da un elenco unico nazionale le figure di cui hanno
bisogno”.
Tornando alla valutazione, vediamo adesso quella delle scuole…
“Deve restare di competenza del ministero e dei suoi ispettori.
Bisognerebbe che questi ultimi, servendosi anche dei test Invalsi, si
recassero nelle scuole per numerosi e approfonditi colloqui con i
docenti, i genitori, i dirigenti e, una volta individuati i punti
deboli, dessero istruzioni e suggerimenti per migliorarli. Dopo un
certo periodo di tempo, al momento della verifica, gli istituti
che avessero raggiunto gli obiettivi prestabiliti potrebbero
essere ‘premiati’ con una sempre maggiore autonomia per esempio
nella gestione dei fondi, fino alla chiamata diretta dei docenti”.
Giacché siamo su un terreno scivoloso, recentemente sul Sole
24 ore ha parlato di lavoro intramoenia per i docenti, una ipotesi
su cui per la verità sono d’accordo anche alcune sigle sindacali.
Pensa che la reperibilità di un docente all’interno di un posto
di lavoro fisico possa davvero essere garanzia della qualità delle
sue prestazioni?
“Penso che ai docenti dovrebbe essere lasciata la scelta di poter
trascorrere più tempo nei locali scolastici perché la loro presenza
in quei luoghi gioverebbe necessariamente al miglioramento del
lavoro in team. Se un docente sa di dover trascorrere un intero
pomeriggio in una scuola si sentirà più motivato, per esempio, a
organizzare gruppi di potenziamento su una disciplina.
Naturalmente a fronte di un significativo incremento economico”.
Ha avuto modo di sapere se alcune delle cose che ci siamo
detti in questa intervista sono argomento di lavoro, o quanto meno
di discussione, anche all’interno dei cantieri del ministro
Giannini?
“A dire il vero no, non saprei. Dobbiamo avere pazienza…”.